La Corte di Appello di Reggio Calabria dubita della legittimità costituzionale del comma 3 dell’art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), articolo aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134.
I giudici rimettenti muovono dal presupposto interpretativo secondo cui il limite del valore del diritto accertato dal giudice, previsto dall’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi − attore o convenuto − sia risultato, nello stesso, soccombente.
Secondo la Corte costituzionale (ordinanza 9 maggio 2014, n. 124) tale interpretazione è erronea perché la disposizione censurata, nella parte in cui dispone che la misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice», deve essere intesa nel senso che essa si riferisce ai soli casi in cui questi accerti l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio e non anche, come invece ritenuto dai giudici a quibus, al caso dell’accertamento dell’inesistenza di tale diritto e, quindi, della soccombenza (dell’attore) e non comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo in favore della parte risultata soccombente nel processo presupposto.
Tale conclusione – si legge nella pronuncia della Consulta che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale – si impone anzitutto per la necessità di interpretare l’impugnata disposizione del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 in coerenza sistematica con il comma 2-quinquies dell’art. 2 della stessa legge, con il quale il legislatore, nel disciplinare i casi di esclusione del diritto all’indennizzo, ha escluso dallo stesso il solo soccombente che sia stato condannato per responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 del codice di procedura civile (lettera a), sicché, ritenere che il medesimo legislatore abbia poi negato tale diritto in tutti i casi di soccombenza in una disposizione che disciplina non l’an del diritto all’indennizzo ma la misura di questo significherebbe disconoscere ogni coerenza alla disciplina legale.
Secondo la Corte, alla stessa soluzione si giunge anche alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente.
Lascia un commento