In caso di abolitio criminis, poiché tale evento fa venire meno, ancor più che la validità e la efficacia della norma penale incriminatrice, la sua stessa esistenza nell’ordinamento, ogni giudice che sia formalmente investito della cognizione sulla fattispecie oggetto di abrogazione ha il compito di dichiarare, ex art. 129, comma 1, cod. proc. pen., che il fatto non è previsto dalla legge come reato, in ossequio al precetto di cui all’art. 2, comma 2, cod. pen., per il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato.
Secondo la Corte di Cassazione (2^ sezione penale, sentenza n. 18542 – ud. 28 aprile 2016), essendo venuto meno l’oggetto sostanziale del rapporto processuale penale, e cioè il nesso tra un fatto penalmente rilevante e l’accusato (imputazione-imputato), tale declaratoria è necessariamente pregiudiziale rispetto ad ogni altro accertamento (quale quello relativo alle cause di inammissibilità della impugnazione) che implichi, invece, la formale permanenza di una “res judicanda”; e ciò non diversamente da quanto è imposto al giudice nella ipotesi di morte dell’imputato, ove pure – in questo caso per il venir meno della componente soggettiva – il rapporto processuale è risolto.
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