I propositi di partire per combattere “gli infedeli”, la vocazione al martirio, l’opera di indottrinamento possono costituire elementi da cui desumere, quantomeno in fase cautelare, i gravi indizi di colpevolezza per il reato di “partecipazione” all’associazione di cui all’art. 270 bis cod. pen. a condizione che vi siano elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo che consenta di tradurre in pratica i propositi di morte.
È necessario che la condotta del singolo si innesti nella struttura, cioè che esista un legame, anche flessibile, ma concreto e consapevole tra la struttura e il singolo.
Lo ha affermato la Corte di Cassazione, VI sezione penale, con la sentenza 29 marzo 2018 n. 14503.
Diversamente – ha aggiunto la Suprema Corte – si rischia di considerare “partecipi” all’associazione internazionale Isis anche coloro che con lo Stato Islamico non hanno nessun contatto – la cui esistenza è ignota al gruppo “madre”- i cui rapporti con questa sono limitati alla mera condivisione di informazioni mediante i più diffusi social network.
In definitiva, la “partecipazione” all’associazione internazionale “non può prescindere dalla esistenza di un contatto reale, non putativo, non eventuale, non meramente interiore, con chi a quella associazione è stabilmente legato perché partecipe della cellula madre“.
E, ancora, secondo la Corte:
In astratto, la chiamata al jihad può essere onorata anche attraverso condotte individuali, autonome e scisse da ogni contatto, anche solo informativo, con qualsiasi struttura ovvero sulla base di un gruppo che opera sul territorio ma che, tuttavia, non abbia rapporti con quello “madre” internazionale; in tale ultimo caso si può in astratto configurare la partecipazione, ai sensi dell’art. 270 bis cod. pen., ad una organizzazione con finalità di terrorismo, quella – per cosi dire – “locale”, ma da tale partecipazione non può farsi discendere automaticamente la partecipazione all’associazione internazionale Isis, in assenza di accertamenti ulteriori.
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