Le azioni giudiziarie di recente promosse da Silvio Berlusconi nei confronti dei quotidiani La Repubblica e L’Unità (rectius, nei confronti del Gruppo Editoriale L’Espresso, del direttore responsabile del quotidiano La Repubblica Ezio Mauro e del giornalista Giampiero Martinotti, la prima, di Concita De Gregorio, in proprio e nella qualità di direttore responsabile del quotidiano L’Unità, e delle giornaliste Federica Fantozzi e Maria Novella Oppo, nonché della Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A., la seconda, della medesima Concita De Gregorio, di Natalia Lombardo e Silvia Ballestra, nonché della Nuova Iniziativa Editoriale S.p.A., la terza), che ampio risalto hanno ricevuto sui principali media nazionali ed internazionali, ci offrono lo spunto per valutare un’ipotesi concreta di prima applicabilità della nuova disciplina sulla “responsabilità aggravata“, come risultante dalla modifica dell’art. 96 c.p.c.
Come è noto, con la c.d. mini riforma del processo civile (approvata con la L. n. 69/2009), il legislatore ha dichiaratamente inteso perseguire, tra gli altri, l’obiettivo di accelerare i processi, favorire le conciliazioni e, per quanto qui interessa, disincentivare la instaurazione di liti temerarie. La modifica dell’art. 96 c.p.c. si inserisce in tale contesto programmatico. Il comma aggiunto così recita:
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Nella previgente formulazione, l’art. 96 c.p.c. ha ricevuto scarsa applicazione nella pratica, anche per il rigore con il quale la costante giurisprudenza ha interpretato i requisiti stabiliti dalla norma: la condanna per lite temeraria presupponeva, infatti, non solo il requisito oggettivo della totale soccombenza di controparte e quello soggettivo di avere agito o resistito in mala fede o colpa grave, ma richiedeva altresì la prova, in punto di an e quantum, di un danno subito. Ora, la previsione di un meccanismo di condanna affidato (anche) all’iniziativa ufficiosa del giudicante ed ancorato a parametri di valutazione del danno di tipo equitativo sembra decisamente aprire la strada ad un uso più agevole dell’istituto.
La modifica dell’art. 96 cit. non è immune da censure ed è stata già oggetto di interpretazioni contrastanti da parte dei primi commentatori, in punto di qualificazione giuridica della condanna e del suo esatto inquadramento. Così, è stato sostenuto (con il supporto di argomenti logici) che, al di là della materiale collocazione nella stessa nell’ambito dell’art. 96, il richiamo espresso all’art. 91 c.p.c. valga a sottrarre la previsione all’ambito specifico di disciplina della “responsabilità aggravata“: tesi coerente con la ratio della norma di svincolare tale condanna (eventuale ed ulteriore rispetto alla disposizione sulle spese) da ogni verifica in ordine al comportamento della parte a carico della quale viene irrogata (“in ogni caso… il giudice… può“).
Ciò che dovrebbe risultare chiaro è l’intento del legislatore – come detto – di disincentivare azioni e difese infondate, favorendo e rafforzando gli strumenti sanzionatori e di deterrenza pensati per prevenire ed evitare ogni possibile abuso del processo (in tale ottica, la modifica dell’art. 96 c.p.c. si collega strettamente alla mutata disciplina della compensazione, totale o parziale, delle spese, ora possibile solo “se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”).
L’excursus sulla riforma del codice di rito si è resa necessaria quale premessa alle seguenti brevi osservazioni (in parte fondate su precedenti specifici della Corte di Cassazione) sulle recenti iniziative giudiziarie promosse in sede civile dal Presidente del Consiglio dei Ministri (il testo delle due ultime citazioni è stato pubblicato in forma integrale sul sito web de L’Unità).
Diritto di cronaca e di critica, pur essendo entrambi derivazione del fondamentale principio sancito dall’art. 21 della Costituzione, si differenziano essenzialmente per la matrice valutativa soggettiva che, per definizione, appartiene alla nozione di critica, la quale non può né deve essere, per ciò stesso, rigorosamente asettica: anzi, essa è tanto più efficace quanto più forte, incisivo ed aspro (o anche sarcastico) è il giudizio che la sostanzia. Può dirsi che l’ampiezza del contenuto del diritto di critica è misura del grado di libertà e democraticità di un ordinamento civile.
Proprio perché la critica si risolve nella manifestazione di giudizi e apprezzamenti, piuttosto che nell’espressione di fatti oggettivi, il limite della “verità” del fatto (previsto, invece, per il diritto di cronaca) è quello che resta maggiormente compresso, sottraendosi alla verifica circa l’assoluta obiettività delle circostanze segnalate: pertanto, affinché sia riconosciuta la scriminante dell’articolo 51 del c.p. non si richiede che la critica – a differenza della cronaca – sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, richiedendosi solo che il nucleo e il profilo essenziale di essi non siano stati strumentalmente travisati e manipolati.
La critica può esplicarsi in forma tanto più penetrante e corrosiva, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria. Se si tratta di un uomo politico, che è un personaggio pubblico, i limiti alla protezione della reputazione si estendono ulteriormente, nel senso che il diritto alla tutela della reputazione deve essere ragionevolmente bilanciato con l’interesse pubblico e l’utilità della libera discussione delle questioni che lo riguardano.
Singole espressioni utilizzate nell’esercizio del diritto di critica possono essere ritenute offensive dal punto di vista obiettivo ed astratto, ma risultare proporzionate all’indignazione suscitata dal destinatario stesso della critica e, in ogni caso, esse vanno “contestualizzate”.
Si valuti ora il contenuto degli atti di citazione. Il primo, quello notificato al quotidiano “La Repubblica“, per intenderci, reputa diffamatoria la pubblicazione di un elenco di domande (dieci, per l’esattezza) rivolte al Presidente del Consiglio (relative al c.d. caso Noemi). La tesi attorea è che le stesse sono “domande retoriche che non mirano ad ottenere una risposta del destinatario, ma sono rivolte ad insinuare nel lettore l’idea che la persona interrogata si rifiuti di rispondere”. Secondo tale ragionamento, la diffamazione deriverebbe dal fatto che, attraverso la formulazione delle suddette domande, “il lettore è indotto a pensare che la proposizione formulata non sia interrogativa, bensì affermativa ed è spinto a recepire come circostanze vere realtà di fatto inesistenti”.
Colpisce l’originalità della tesi che, tuttavia, non appare minimamente idonea a supportare la fondatezza dell’ipotesi diffamatoria (o, comunque, illecita) formulata in giudizio. In relazione a tale azione giudiziaria, i presupposti per una pronuncia di integrale rigetto della domanda sono evidenti e, con essi, la connotazione dell’azione stessa come “temeraria”. Al rigetto non potrà che conseguire una condanna alle spese a favore dei convenuti e, per quanto si è detto in premessa, è legittimo e verosimile attendersi la condanna al pagamento di una ulteriore somma quantomeno ai sensi del comma III dell’art. 96 c.p.c.
Più complessa (anche per la molteplicità dei temi d’indagine coinvolti) la valutazione delle citazioni nei confronti de L’Unità. La tesi proposta è, in sintesi, che le affermazioni pubblicate sul quotidiano “sono tutte false e lesive dell’onore, della reputazione, dell’immagine di parte attrice. Della quale hanno leso anche l’identià personale, presentando l’On. Berlusconi come soggetto che di certo non è, ossia come una persona con problemi di erezione, che fa ricorso a misteriose inezioni, che in modo spregevole impone prestazioni non gradite e le baratta con posti di governo o candidature elettorali. Come persona che intrattiene telefonate hard, intercettate ed i cui contenuti confermerebbero quanto sopra. E poi tenta di farle passare sotto silenzio, manipolando le televisioni, oppure per fini personali spingendo la RAI ad una guerra contro SKY”.
Deve riconoscersi che l’asprezza della critica, nel caso degli articoli pubblicati sul quotidiano L’Unità (che, peraltro, richiama affermazioni già da altri rese pubbliche), ha raggiunto livelli acuti e, per alcuni limitati aspetti, oscillanti sulla linea di confine dell’illecito penale. Ma giova domandarsi, al fine di poter escludere in concreto la scriminante di cui all’art. 51 c.p., se detta linea di confine, il limite del legittimo esercizio del diritto di critica, non abbia subito negli ultimi tempi uno spostamento anomalo, una deviazione incontrollata, si sia allargata (o ristretta, a seconda dei punti di vista) oltre ogni ragionevole misura, proprio per effetto (diremmo, per colpa) del comportamento “abnorme” – sia in pubblico che in “privato” – del suo principale destinatario, homo publicus per eccellenza, che ha reso così possibile un generale imbarbarimento dei toni della polemica politica e giornalistica.
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