A farne le spese, stavolta, è stata la Corte costituzionale. Di un certo modo di leggere le sentenze che ne sfigura i contenuti per farsi interprete di un sentimento o, non so se peggio, un’ideologia.
I titolisti si sono sbizzariti, rincorrendo la sintesi più infelice:
Tappeto rosso per stupratori e pedofili (Il Tempo)
Per violenza sessuale il carcere non è più necessario (Il Giornale)
Quella sentenza sullo stupro che umilia le donne (Il Giornale)
La pronuncia che ha acceso la fantasia dei mezzi di informazione, suscitando le consuete scomposte reazioni del mondo della politica, è la n. 265/2010: la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.
Inutile dire che, ad eccezione di pochi assennati interventi, i commenti pubblicati all’indomani del deposito della sentenza si sono per lo più contraddistinti per assoluta superficialità, e, in taluni casi, hanno tradito chiari intenti strumentali, spingendosi al punto da attribuire ai giudici costituzionali finalità del tutto estranee alle funzioni che essi sono chiamati a svolgere e travisare completamente il senso e la portata dello scrutinio di costituzionalità: secondo il Ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna, l’intervento della Corte è giustificazionista, lontano dal sentire dei cittadini, e, purtroppo, ci allontana, sebbene di poco, dalla strada verso il rigore e la tolleranza zero contro i crimini sessuali che questa maggioranza ha intrapreso sin dall’inizio della legislatura.
Una lettura più seria della sentenza della Corte costituzionale (e delle ordinanze di rimessione) elimina ogni dubbio circa il fatto che la stessa, in alcun modo, possa costituire privilegi o trattamenti di favore per le categorie di soggetti individuati dalla norma censurata.
Tanto per dire, non impedisce comunque l’applicazione della misura cautelare in carcere, né stende tappeti rossi a chicchessia.
Tre i parametri costituzionali evocati:
la norma impugnata viola, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di mafia nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.
La nuova disciplina pone in «crisi», secondo i Giudici rimettenti, i principi di adeguatezza e graduazione che, in via generale, regolano l’esercizio del potere cautelare, rovesciando la logica del «minore sacrificio necessario» sottostante alla formulazione originaria dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale è conferito ordinariamente al giudice della cautela il potere-dovere di distinguere i diversi fatti riconducibili alla medesima figura di reato e la differente intensità delle esigenze di tutela, ai fini della scelta della misura meglio rispondente al caso concreto.
E’ vero che la Corte costituzionale ha in precedenza reputato ragionevoli interventi normativi che, in deroga ai suddetti principi, hanno introdotto presunzioni di adeguatezza nel sistema delle misure cautelari. Ma ciò è avvenuto con riferimento ad iniziative ben delimitate, volte a fronteggiare «emergenze» a carattere straordinario (quelle di contrasto della criminalità di tipo mafioso, la quale, per la complessità della sua struttura e i durevoli vincoli «di appartenenza, radicamento e progettuali» che la connotano, esprime un elevato coefficiente di pericolosità per i valori fondamentali della convivenza civile e dell’ordine democratico).
L’ultima novellazione d’urgenza estende l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale a procedimenti aventi ad oggetto numerosi altri reati, anche eterogenei tra loro: per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali, e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura. E, d’altra parte, procedimenti relativi a gravissimi delitti – puniti con pene più severe di quelli che qui vengono in rilievo (taluni addirittura con l’ergastolo) – restano sottratti al regime cautelare speciale.
La stoccata della Consulta: «non è dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi interprete dell’acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla comminatoria di pene adeguate, da infliggere all’esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza».
L’ultima severa riflessione ci consente di sottolineare l’errore (dettato da ignoranza o da mala fede) insito in certe propalazioni mediatiche: quello di confondere le finalità della custodia preventiva con quelle istituzionali della pena.
Ma non ci aspettiamo che il Ministro Carfagna sappia cogliere il “sottile” distinguo.
massimo coppa zenari dice
Questo succede innanzitutto per l’enorme ignoranza di troppi giornalisti (e faccio autocritica), per la necessità di sensazionalismo dei media moderni (il cosiddetto “dramatis personae” individuato dagli studi sulle comunicazioni di massa) e poi perché, appunto, il governo attuale ama attaccare la Corte Costituzionale perché boccia le schifezze fatte per aiutare Berlusconi (come il lodo Alfano): da qui le critiche del “Giornale” di famiglia e della beneficiata Carfagna (letteralmente portata dal velinismo al ministero proprio da Berlusconi)
Antonio Ferrante dice
effettivamente dire che la corte costituzionale ha preparato un tappeto rosso per stupratori e pedofili va ben oltre la polemica politica.