Costituisce minaccia grave la indebita prospettazione della bocciatura rivolta ad un’alunna a seguito di un’assemblea di genitori nel corso della quale la madre di quest’ultima aveva proposto la rimozione del professore. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione (6^ sezione penale, sentenza n. 36700 del 26 giugno 2008 – depositata il 24 settembre 2008), relativamente ad una vicenda che vedeva imputato un professore di un liceo per una serie di episodi di abuso di ufficio ed altri reati.
Fino a quando è obbligatorio andare a scuola?
Integra illecito penale l’inosservanza non solamente dell’obbligo dell’istruzione elementare ma anche dell’obbligo relativo all’istruzione sino al conseguimento della licenza di scuola secondaria di primo grado ovvero sino al quindicesimo anno di età; seppure infatti l’art. 731 cod. pen. si limiti a contemplare direttamente la sola inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare, la sanzione relativa all’obbligo di istruzione secondaria deriva dal combinato disposto degli artt. 731 e dell’art. 8 della Legge n. 1859 del 1962, rimandando la seconda norma, istitutiva del relativo obbligo di frequenza, alla prima per quanto concernente le sanzioni applicabili. E’ quanto ha stabilito la 3^ sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 35396 del 21 maggio 2008, depositata il 16 settembre 2008.
Inammissibile impugnazione redatta in lingua straniera
E’ inammissibile l’impugnazione redatta in lingua straniera, interamente o in uno dei suoi indefettibili elementi costitutivi indicati dall’art. 581 c.p.p., presentata da soggetto legittimato che non conosca la lingua italiana. [Leggi di più…]
Sentenze ecclesiastiche di nullità e limiti alla delibazione
Come è noto, le sentenze ecclesiastiche di nullità non spiegano direttamente effetti nell’ordinamento italiano, dovendo prima superare il giudizio di delibazione ad opera della Corte di Appello territorialmente competente.
Decidendo un ricorso rimesso alle S.U., per la particolare importanza della questione di massima e al fine di evitare preventivamente contrasti, la Corte Suprema di Cassazione, con Sentenza n. 19809 del 18 luglio 2008 (Presidente V. Carbone, Relatore F. Forte), ha affermato il seguente principio di diritto:
Non ogni vizio del consenso accertato nelle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio consente di riconoscerne la efficacia nell’ordinamento interno, dandosi rilievo nel diritto canonico come incidenti sull’iter formativo del volere anche a motivi e al foro interno non significativo in rapporto al nostro ordine pubblico, per il quale solo cause esterne ed oggettive possono incidere sulla formazione e manifestazione di volontà dei nubendi, viziandola o facendola mancare. L’errore, se indotto da dolo, che rileva nell’ordinamento canonico ma non in quello italiano, se accertato come causa di invalidità in una sentenza ecclesiastica, potrà dar luogo al riconoscimento di questa in Italia, solo se sia consistito in una falsa rappresentazione della realtà, che abbia avuto ad oggetto circostanze oggettive, incidenti su connotati stabili e permanenti, qualificanti la persona dell’altro nubendo.
Nella specie, è stata ritenuta in contrasto assoluto con l’ordine pubblico la rilevanza data, nella formazione della volontà dei nubendi, all’errore soggettivo consistito nella ignoranza di uno dei nubendi in ordine all’infedeltà dell’altro prima del matrimonio.
In estremo subordine, chiedo pietà!
Vi sono storie che il tempo ha tramutato in leggende, che si tramandano di generazione in generazione, arricchendosi ogni volta di nuovi particolari, sorprendenti, talvolta surreali. Che non smettono mai di essere raccontate. Questa che segue è una di quelle storie.
Aula penale. Sono poche le probabilità che l’imputato venga mandato assolto. Troppe e schiaccianti le prove raccolte nei suoi confronti. L’istruttoria dibattimentale ha confermato appieno la fondatezza dell’ipotesi accusatoria. I precedenti sono di ostacolo alla concessione del beneficio della sospensione condizionale. Il difensore ne è consapevole. E’ teso e la tensione gli si legge sul volto. Ben conosce la severità del giudice che ha di fronte. Il pubblico ministero ha formulato le sue pesanti richieste. Tocca ora a lui difendere l’indifendibile. L’arringa non convince. Alla richiesta principale di assoluzione si affretta ad aggiungere una subordinata affinché sia applicato il minimo della pena. Ma non basta: “in estremo subordine, signor Giudice, chiedo pietà…!”.
Formule assolutorie
Non sempre dalle frequentazioni delle aule d’udienza si ricevono rassicuranti conferme circa l’utilizzo corretto della formula assolutoria in un processo penale. Le riassumiamo di seguito, con l’ausilio del Supremo Insegnamento della Corte di Cassazione.
La formula assolutoria “per non aver commesso il fatto” deve essere usata quando manchi, sul piano puramente materiale, ogni rapporto tra l’attività dell’imputato e l’evento dannoso, mentre quella più ampiamente liberatoria, “perché il fatto non sussiste“, presuppone che nessuno degli elementi, integrativi della fattispecie contestata, risulti provato; quando, invece, sia stata accertata, sotto l’aspetto fenomenico, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato (quando cioè dalle risultanze processuali emerga che un fatto – corrispondente alla figura tipica di reato – sussiste) sicché la sentenza, non potendo escludere la riconducibilita dell’evento a tale fatto, si limiti ad affermare che nella condotta dell’imputato non si ravvisa l’elemento soggettivo della colpa (o del dolo), la formula è “perché il fatto non costituisce reato“.
Vorrei divorziare, ma…
Un anno circa dopo la separazione ho ospitato da me mio marito perché aveva poco prima subito uno sfratto ed era alla ricerca di un nuovo alloggio. In un primo momento contava di restare a casa per un mese o poco più, ma alla fine abbiamo coabitato per oltre dieci mesi e, devo aggiungere, in quel periodo andavamo davvero d’accordo, ci comportavamo come se non ci fossimo mai separati in Tribunale. Poi le cose sono nuovamente cambiate ed oggi sono fermamente intenzionata a chiedere il divorzio, anche contro la sua volontà. Ho sentito dire che quei mesi in cui siamo tornati insieme potrebbero crearmi qualche problema. Può dirmi in che senso e fornirmi un chiarimento sul punto? Grazie. Daniela, via e-mail.
La legge sul divorzio stabilisce le condizioni necessarie per ottenere lo scioglimento (o la cessazione degli effetti civili) del matrimonio e, tra queste, il protrarsi ininterrotto della separazione da almeno tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale. La riconciliazione dei coniugi, interrompendo la separazione, fa venir meno la suddetta condizione.
Sulla specifica questione ha più volte avuto occasione di pronunciarsi la Suprema Corte, la quale ha affermato il principio, da considerarsi ormai pacifico in giurisprudenza, secondo cui il ripristino della coabitazione, che, pur non integrando di per sé la vera e propria convivenza coniugale (potendo il vivere sotto lo stesso tetto non essere accompagnato da comportamenti volti ad una totale condivisione della vita familiare), tuttavia assume, anche in relazione alla sua durata, un forte valore presuntivo, per la sua idoneità a dimostrare la volontà dei coniugi di superare il precedente stato (cfr. Cassazione civile , sez. I, sentenza 25.05.2007 n° 12314, Cassazione civile, sez. I, sentenza 06.12.2006 n° 26165).
Adsl lenta, recedere si può senza costi
Pur continuando a pagare il canone Telecom, ho aderito ad una offerta Adsl di Infostrada che contemplava traffico illimitato ad una velocità di 7 mega in download. Sin dalla prima connessione mi sono accorto che la connessione era piuttosto lenta e, sicuramente, inferiore alla velocità prevista dall’offerta. Con il passare delle settimane la situazione è decisamente peggiorata e, misurando la velocità con appositi test in orari diversi della giornata, ho appurato che la stessa non va mai oltre i 150 Kbps. Non ho più intenzione di mantenere una linea Adsl in condizioni così esasperanti, ma neppure vorrei incorrere in penali per la disdetta anticipata (il contratto mi scade a maggio dell’anno prossimo). C’è un modo per passare ad altro gestore in maniera “indolore”? (Marco, via e-mail)
In primo luogo, per fare chiarezza sulla disciplina applicabile, occorre ricordare che, con la entrata in vigore del D.L. 31 gennaio 2007 n. 7 (c.d. Decreto Bersani-bis), convertito nella legge 2 aprile 2007, n. 40, i contratti per adesione stipulati con operatori di telefonia e di reti televisive e di comunicazione elettronica, indipendentemente dalla tecnologia utilizzata, devono prevedere la facoltà del contraente di recedere dal contratto o di trasferirlo presso altro operatore senza vincoli temporali o ritardi non giustificati da esigenze tecniche e senza spese non giustificate da costi dell’operatore e non possono imporre un obbligo di preavviso superiore a trenta giorni. Le clausole difformi sono nulle, fatta salva la facoltà degli operatori di adeguare alle disposizioni del presente articolo i rapporti contrattuali già stipulati alla data di entrata in vigore del presente decreto entro i successivi sessanta giorni.
Dunque, una eventuale clausola che prevedesse una penale in caso di disdetta anticipata sarebbe nulla ed improduttiva di effetti.
Vero è che la norma non preclude del tutto agli operatori la facoltà di imporre ai clienti il pagamento di importi (spese o “contributi” variamente denominati per far fronte ai costi sostenuti per la disattivazione del servizio), peraltro difficilmente quantificabili secondo criteri oggettivi.
Tuttavia, laddove, come sembra nel caso in esame, il recesso anticipato sia giustificato dal grave inadempimento della controparte, alcun costo potrà essere legittimamente addebitato al cliente adempiente.
Impugnativa licenziamento, rileva la spedizione
L’impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all’art. 6, l. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all’ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine. Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 4 settembre 2008, n. 22287.