Il ricorso cautelare contro il trasferimento o altri atti del datore di lavoro (compreso il licenziamento) è idoneo a impedire, se proposto nel prescritto termine di 180 giorni, la decadenza prevista dall’articolo 6, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, al pari del ricorso ordinario e della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 212 depositata oggi (relatore il giudice Giovanni Amoroso), accogliendo la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla sezione lavoro del Tribunale di Catania.
Le Sezioni Unite sui contratti a termine con Poste Italiane
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, decidendo una questione di massima di particolare importanza, hanno affermato la legittimità dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione tra loro con le Poste Italiane s.p.a. nel rispetto della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001, e successive integrazioni, applicabile ratione temporis; dovendosi ritenere la normativa interna (in ispecie, quella di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, integrata dall’art. 1, commi 40 e 43, della legge n. 247 del 2007) conforme ai principi fissati dall’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (Direttiva n. 1999/70/CE). [Leggi di più…]
Abusivo contratto a termine nella PA: misura del risarcimento
Decidendo una questione di massima ritenuta di particolare importanza, sulla definizione, la portata applicativa e la parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell’art. 36 D.lgs. n. 165 del 2001, e risolvendo un contrasto giurisprudenziale registrato sui criteri di liquidazione da adottare, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, affermano il seguente principio di diritto:
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da determinato a indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n. 183, e quindi nella misura pari ad una indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n. 604.
Conversione del rapporto a termine e criteri di liquidazione dell’indennità
In tema di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, lo “ius superveniens” ex art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge n. 183 del 2010 configura una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’indennità va liquidata, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivo del lavoratore, trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel “periodo intermedio” (dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione).
Il principio, coerente con l’interpretazione che della nuova disciplina ha fornito la Corte costituzionale con la sentenza n. 303 del 2011, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Presidente F. Roselli – Relatore V. Nobile, con la Sentenza n. 3056 del 29 febbraio 2012.
Formazione e lavoro, in mancanza di addestramento si converte in contratto a tempo indeterminato
Richiamando precedenti della stessa sezione lavoro, la Corte di Cassazione, con sentenza 8 marzo 2012, n. 3625, ribadisce il principio secondo cui, nel contratto di formazione e lavoro – previsto dall’art. 3 del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, convertito, con modificazioni, nella legge 19 dicembre 1984, n. 863 (come successivamente modificato con D.L. n. 108 del 1991, convertito con la legge n. 169 del 1991) – l’addestramento pratico finalizzato all’acquisizione da parte del lavoratore della professionalità necessaria all’immissione nel mondo del lavoro costituisce parte integrante della causa del contratto stesso. In mancanza di tale presupposto, dunque, non è integrata la fattispecie del contratto di formazione e lavoro, il quale prevede, a fronte della prestazione di lavoro, l’obbligo datoriale di corrispondere una retribuzione e di fornire un addestramento finalizzato all’acquisizione della professionalità necessaria per una definitiva immissione del giovane nel mondo del lavoro.
Medici specializzandi, irretroattiva la nuova disciplina della prescrizione
La Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla applicabilità della nuova disciplina sulla prescrizione introdotta dalla legge di stabilità 2012 ed entrata in vigore il 1° gennaio 2012 in tema di danno da omesso recepimento delle direttive CEE sui compensi dei medici specializzandi, con la sentenza 1850 del 8 febbraio 2012 (Sezione Lavoro, Presidente F. Miani Canevari – Estensore R. Mancino) ha affermato il principio secondo cui, la norma introdotta dall’art. 4, comma 43, della legge n. 183 del 2011, secondo la quale la prescrizione del diritto al risarcimento del danno soggiace al termine quinquennale ex art. 2947 cod. civ., vale soltanto per i fatti verificatisi successivamente alla sua entrata in vigore, poiché essa non evidenzia i caratteri della norma interpretativa, idonei a sottrarla al principio di irretroattività; ne consegue che, per i fatti anteriori alla novella, opera la prescrizione decennale, secondo la qualificazione giurisprudenziale nei termini dell’inadempimento contrattuale.
Impugnazione di licenziamento: tempestiva se spedita entro i 60 giorni
L’impugnazione del licenziamento ai sensi dell’art. 6 della legge n. 604 del 1966, formulata mediante dichiarazione spedita al datore di lavoro con missiva raccomandata a mezzo del servizio postale, deve intendersi tempestivamente effettuata allorché la spedizione avvenga entro sessanta giorni dalla comunicazione del licenziamento o dei relativi motivi, anche se la dichiarazione medesima sia ricevuta dal datore di lavoro oltre il termine menzionato.
In base ai principi generali in tema di decadenza, enunciati dalla giurisprudenza di legittimità e affermati, con riferimento alla notificazione degli atti processuali, dalla Corte costituzionale – l’effetto di impedimento della decadenza si collega, di regola, al compimento, da parte del soggetto onerato, dell’attività necessaria ad avviare il procedimento di comunicazione demandato ad un servizio – idoneo a garantire un adeguato affidamento – sottratto alla sua ingerenza, non rilevando, in contrario, che, alla stregua del predetto art. 6, al lavoratore sia rimessa la scelta fra più forme di comunicazione, la quale, valendo a bilanciare la previsione di un termine breve di decadenza in relazione al diritto del prestatore a conservare il posto di lavoro e a mantenere un’esistenza libera e dignitosa (art. 4 e 36 Cost.), concorre a mantenere un equo e ragionevole equilibrio degli interessi coinvolti.
Il principio di diritto è stato affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza 14 aprile 2010 n. 8830.
Licenziamento per superamento del periodo di comporto, impugnazione nel termine ordinario
L’impugnazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto non è soggetta al termine di decadenza di sessanta giorni ma a quello ordinario di prescrizione. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione – Sezione Lavoro con la sentenza 28 gennaio 2010 n. 1861, secondo la quale si tratta di un’ipotesi particolare di recesso alla quale non può essere applicata la disciplina contenuta nella legge n. 604 del 1966 che vale solo per i casi contemplati dalla normativa stessa. Con la conseguenza che in tutte le ipotesi di recesso non previste espressamente da quella legge torna in vigore la disciplina generale contenuta nel codice civile.
Legge 104 e trasferimento per incompatibilità ambientale
Decidendo una questione ritenuta “di particolare importanza”, con sentenza depositata il 9 luglio 2009, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione hanno affermato il principio secondo cui, in tema di assistenza alle persone handicappate, il diritto del familiare lavoratore, che assiste con continuità un familiare od affine portatore di handicap, a non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso non possa essere invocato ove il lavoratore versi in una situazione di incompatibilità ambientale.
Alla luce di una interpretazione dell’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 orientata alla complessiva considerazione dei principi e dei valori costituzionali coinvolti, hanno affermato le Sezioni Unite, il diritto del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell’azienda, ovvero della pubblica amministrazione, non è invece attuabile ove sia accertata, in base ad una verifica rigorosa anche in sede giurisprudenziale, la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro.