La terza sezione civile della Corte di Cassazione, con la sentenza del 31 luglio 2017 n. 18962, ribadisce un principio che può considerarsi ormai consolidato nella giurisprudenza del Massimo Collegio: un eccesso di esposizione dei fatti di causa viola la prescrizione dell’art. 366, comma, 1, n. 3, c.p.c. e, pertanto, deve essere sanzionato con la inammissibilità del ricorso per cassazione (nel caso di specie, le ricorrenti avevano impiegato cinquantuno pagine per illustrare l’intero svolgimento dei gradi di merito).
Questa la motivazione della Suprema Corte:
premesso che l’art. 366, co. 1, c.p.c., quanto ai requisiti di contenuto-forma del ricorso, prevede al n. 3) che esso debba contenere, a pena di inammissibilità, “l’esposizione sommaria dei fatti di causa“, deve anzitutto evidenziarsi che, secondo ormai consolidata giurisprudenza, il fatto deve intendersi nella duplice accezione di fatto sostanziale (ossia, quanto concernente le reciproche pretese delle parti) e processuale (relativo, cioè, a quanto accaduto nel corso del giudizio, alle domande ed eccezioni formulate dalle parti, ai provvedimenti adottati dal giudice, ecc. – v. Cass. n. 1959/2004).
Quanto poi alla sommarietà che, secondo la norma in esame, deve caratterizzare l’esposizione, è costante l’insegnamento secondo cui “Per soddisfare il requisito imposto dall’articolo 366 comma primo n. 3 cod. proc. civ. il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamente erronea, compiuta dal giudice di merito” (così, Cass. n. 7825/2006; Cass. n. 1926/2015).
La funzione cui assolve il requisito in parola è ben riassunta da Cass. n. 593/2013, laddove si afferma (in motivazione) che esso “serve alla Corte di cassazione per percepire con una certa immediatezza il fatto sostanziale e lo svolgimento del fatto processuale e, quindi, acquisire l’indispensabile conoscenza, sia pure sommaria, del processo, in modo da poter procedere alla lettura dei motivi di ricorso in maniera da comprenderne il senso“.
Inoltre, ai fini della sanzione dell’inammissibilità, non può distinguersi tra esposizione del tutto omessa o meramente insufficiente (così la già citata Cass. n. 1959/2004), occorrendo precisare che, come più recentemente affermato, il ricorso deve considerarsi inammissibile per insufficiente esposizione, ai sensi dell’art. 366, co. 1, n. 3), c.p.c., quando “non consente alla Corte di valutare se la questione sia ancora ‘viva’ o meno” (così, Cass. n. 1296/2017, in motivazione), ossia se dalla mera lettura del ricorso possa evincersi se i motivi di impugnazione proposti siano ancora spendibili, ovvero preclusi dalla formazione del giudicato interno.
Sul versante opposto, concernente l’eccesso di esposizione, numerose pronunce hanno avuto ad oggetto la tecnica della c.d. “spillatura” o del c.d. “assemblaggio”, consistenti nella riproduzione, meccanica o informatica, di una serie di atti processuali e documenti all’interno del ricorso; in proposito, Cass., Sez. Un. n. 16628/2009, ha affermato che “La prescrizione contenuta nell’art. 366, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., secondo la quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, né accenni all’oggetto della pretesa, limitandosi ad allegare, mediante “spilla tura” al ricorso, l’intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura“; e ancora, secondo Cass., Sez. Un. n. 5698/2012, “In tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366, n. 3, cod. proc. civ., la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. (Nella specie, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso articolato con la tecnica dell’assemblaggio, mediante riproduzione integrale in caratteri minuscoli di una serie di atti processuali: sentenza di primo grado, comparsa di risposta in appello, comparsa successiva alla riassunzione a seguito dell’interruzione, sentenza d’appello ove mancava del tutto il momento di sintesi funzionale, mentre l’illustrazione dei motivi non consentiva di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi)” (i suddetti principi sono stati più recentemente affermati, ex multis, da Cass. n. 3385/2016 e Cass. n. 12641/2017).
Ritiene il Collegio che tale ultimo orientamento ben possa trovare applicazione anche nel caso in cui, pur non avendo il ricorrente inserito nel corpo del ricorso la fotoriproduzione degli atti del processo (il che, peraltro, non ne comporta di per sé l’indefettibile inammissibilità: v. ad es., Cass., Sez. Un., n. 4324/2014, Cass. n. 18363/2015 e, più recentemente, con specifico riguardo a foto e documenti, Cass. n. 12415/2017), egli abbia tuttavia egualmente ecceduto nel riportare, in modo quasi meticoloso, ogni singolo accadimento processuale, sia pur con narrazione propria, ma senza alcuna necessità, come avvenuto nella specie.
Infatti, nonostante la vicenda in esame non possa connotarsi per particolare complessità, le odierne ricorrenti hanno impiegato ben cinquantuno pagine per spiegare l’intero svolgimento dei gradi di merito, in modo tale da escludere la sussistenza della sommarietà di cui alla norma in questione. Una tale tecnica espositiva ha reso particolarmente “indaginosa” l’individuazione delle questioni da parte di questa Corte, impropriamente investita della ricerca e della selezione dei fatti (anche processuali) rilevanti ai fini del decidere (v. la già citata Cass., Sez. Un., n. 16628/2009).
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