Uno degli argomenti più utilizzati dai primi contestatori della decisione della Consulta sul c.d. lodo Alfano (improvvisati costituzionalisti da piccolo schermo peraltro ignari delle motivazioni della sentenza, non ancora depositate) è stato quello relativo ad una asserita contraddittorietà della decisione rispetto all’unico precedente in materia (la pronuncia sul c.d. lodo Schifani). Si è detto, con toni anche aspri che mal si conciliano con una disamina di alto profilo tecnico, che risulta incomprensibile il richiamo all’art. 138 della Costituzione, considerando che la necessità di una legge costituzionale non era affatto emersa dalla sentenza che aveva deciso la illegittimità del precedente lodo.
L’argomento è fallace e fuorviante. Non tiene conto, infatti, dei complessi meccanismi che regolano il giudizio di costituzionalità e dei limiti assegnati alla Corte in sede di esame delle questioni sottoposte. Uno di questi riguarda l’ambito stesso del giudizio, delineato nella sua interezza non certo dal giudice costituzionale ma da quello rimettente (il giudice a quo). E’ quest’ultimo, nel sollevare la questione di costituzionalità, a dover indicare non solo la norma censurata, ma anche i singoli parametri costituzionali che si assumono violati. La Corte si pronuncia sulla questione così come prospettata nell’ordinanza di rimessione e nel rispetto del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (la decisione deve essere contenuta nei limiti dell’impugnazione).
Nel caso del lodo “Schifani”, il Giudice a quo aveva evocato, quali parametri di riferimento, gli artt. 3, 101, 112, 68, 90, 96, 24, 111 e 117 della Costituzione. Dunque, la Corte non poteva autonomamente pronunciarsi sul contrasto con l’art. 138 (che non era stato profilato dal rimettente).
Nel caso del lodo “Alfano”, è stata rimessa alla Corte la questione di costituzionalità della legge con riferimento anche all’art. 138 della Costituzione. La Consulta ha potuto decidere anche sulla violazione dell’art. 138.
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