A giudicare dai titoli dei principali giornali (“la moglie forte si può maltrattare”, “moglie forte, botte di marito lecite”, etc.), la recente sentenza n. 25138 della VI Sezione penale della Corte di Cassazione avrebbe affermato un principio davvero curioso, oltre che palesemente illogico e clamorosamente ingiusto, come del resto si sono affrettate a commentare le donne della politica, prontamente intervistate a margine.
Come spesso, purtroppo, accade, le cose non stanno propriamente come i mass media, per esigenze di massima semplificazione (o anche di “spettacolarizzazione” della notizia) riferiscono.
Tanto per cominciare, le “botte” del marito (come quelle di chiunque) in nessun caso potrebbero essere considerate “lecite”, perché, a seconda dei casi, integrano il reato di percosse (previsto e punito dall’art. 581 cod. pen.) ovvero quello di lesioni personali (p. e p. dall’art. 582 cod. pen.). All’opposto, anche una condotta che non si traduca in violenza fisica può integrare gli estremi del reato di maltrattamenti in famiglia (p. e p. dall’art. 572 cod. pen.): per esempio, una pronuncia della stessa sezione della Suprema Corte, risalente al 2000 (la n. 6785, anch’essa assurta agli onori delle cronache del tempo) ha ritenuto congruamente motivata una sentenza di condanna con riferimento alla pervicace, sistematica condotta, tesa a rendere la vita insopportabile al coniuge con l’umiliante (ed ingiustificata) vessazione di esasperata avarizia.
Perché sussista il reato di cui all’art. 572 c.p., occorre che sia accertata una condotta (consistente in aggressioni fisiche o vessazioni o manifestazioni di disprezzo) abitualmente lesiva della integrità fisica e del patrimonio morale della persona offesa, che, a causa di ciò, versa in una condizione di sofferenza.
Nel caso riportato dalle recenti cronache, il marito era stato condannato in primo grado (e la Corte di Appello aveva confermato la decisione) per quella specifica ipotesi di reato, mentre i fatti incriminati erano risultati circoscritti ad alcuni episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di circa tre anni, per i quali, peraltro, era intervenuta anche remissione di querela: fatti non idonei perciò ad integrare il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione richiesto dalla norma incriminatrice. Questo il nucleo centrale del ragionamento seguito dai Giudici della Suprema Corte, assolutamente trascurato dai resoconti giornalistici, i quali hanno preferito puntare sulla personalità della moglie (per nulla “intimorita” dalla condotta del marito) per trarre da essa valutazioni che, invece, la Cassazione aveva già compiuto a prescindere.
massimo coppa zenari dice
certamente le percosse non potrebbero mai essere giustificate se non per una difesa legittima e per evitare un danno imminente ed ingiusto; però mi sembrava verosimile che un maritino potesse cercare di rintuzzare un donnone …
Antonio Ferrante dice
simpatica la sentenza sul coniuge umiliato e vessato dalla esasperata avarizia del marito!