Una recente sentenza della 5^ Sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, la n. 1258 del 28 febbraio/5 marzo 2012, ci fornisce lo spunto per illustrare i presupposti di applicabilità, in sede processuale, dell’istituto – di creazione giurisprudenziale, ora disciplinato dall’art. 34, co. 5, c.p.a. – della cessazione della materia del contendere, tracciando i profili differenziali rispetto alla mera declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse.
Sulla base della disposizione sopra citata, qualora la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta nel corso del giudizio il giudice deve dichiarare, con sentenza di merito, cessata la materia del contendere. Tale statuizione postula che siano accaduti nel corso del giudizio “fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti e da rendere incontestata la reale sparizione dell’interesse sottostante alla richiesta pronuncia di merito, senza che debba sussistere un espresso accordo delle parti anche sulla fondatezza (o infondatezza) delle rispettive posizioni originarie nel giudizio”.
In sintesi, prosegue il Consiglio di Stato:
la cessazione della materia del contendere può essere prospettata come causa estintiva del processo, nel merito, solo quando la pretesa del ricorrente, ovvero il bene della vita cui aspira, ha trovato piena e comprovata soddisfazione in via extragiudiziale, sì da rendere del tutto inutile la prosecuzione del processo stante l’oggettivo venir meno della lite, e ciò indipendentemente dal carattere annullatorio del giudizio.
E’ decisivo che la situazione sopravvenuta soddisfi in modo pieno ed irretrattabile il diritto o l’interesse legittimo esercitato, così da non residuare alcuna utilità alla pronuncia di merito.
In tal caso il giudicato, a differenza di quanto accade per la declaratoria di sopravvenuta carenza di interesse, ha l’attitudine a proiettarsi al di fuori del processo in cui si è formato.
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