Ancora sull’utilizzo della giusta formula assolutoria, uno spunto ci viene recentemente offerto dalla Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su fattispecie relativa ad omesso versamento I.V.A., sulla quale, come è noto, è intervenuto il legislatore, modificando, con l’art. 8 del D.Lgs. 24/09/2015 n. 158, l’art. 10 ter D.Lgs. n. 74 del 2000 nel senso di attribuire rilevanza penale, elevando il precedente limite, unicamente alle condotte di omesso versamento dell’imposta per un ammontare superiore ad euro 250.000,00 per ciascun periodo di imposta (modifica che, in quanto comportante una disposizione più favorevole rispetto alla precedente, si applica, ex art. 2, comma 4, cod. pen., anche ai fatti posti in essere antecedentemente). [Leggi di più…]
Imputato assolto, non sempre il risarcimento è precluso
La persona che avevo querelato è stata condannata in primo grado dal Tribunale a sei mesi di reclusione e a risarcirmi i danni. Ha fatto appello e ora è stato incredibilmente (almeno per me) assolto perché il fatto non sussiste. Significa che ho perso ogni possibilità di ottenere il mio risarcimento?
Nella formulazione del quesito è stato omesso un dettaglio solo in apparenza secondario: se cioè l’assoluzione sia stata pronunciata ai sensi del 1° ovvero del 2° comma dell’art. 530 c.p.p.
La Corte di Cassazione ha più volte affermato il principio secondo cui: “ai sensi dell’art. 652 (nell’ambito del giudizio civile di danni) e dell’art. 654 c.p.p. (nell’ambito di altri giudizi civili), il giudicato di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo e specifico accertamento circa l’insussistenza o del fatto o della partecipazione dell’imputato e non anche quando l’assoluzione sia determinata dall’accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato e cioè quando l’assoluzione sia stata pronunziata a norma dell’art. 530 c.p.p., comma 2” (cfr., Cass. civ. sez. 6, sent. 13 novembre 2013, n. 25538, Cass. civ., sez. lav., 11.2.2011, n. 3376, Cass. 9-3-2010 n. 5676, Cass. 30-10-2007 n. 22883).
Di recente, tale principio è stato ribadito dal Supremo Collegio (sez. lav., sent. 29 gennaio 2014, n. 1925), in fattispecie in cui l’imputato era stato assolto proprio con la formula “perché il fatto non sussiste“, ai sensi dell’articolo 530, comma 2, c.p.p.
Dunque, per rispondere al quesito posto, l’assoluzione non è in teoria di ostacolo alla riproposizione, in sede civile, dell’azione di risarcimento danni, ma solo se la formula adoperata dalla Corte di Appello è quella del 2° comma dell’art. 530 c.p.p. In tal caso, il Giudice civile potrà, infatti, procedere in modo autonomo alla rivalutazione del fatto e del materiale probatorio, pur dovendo comunque tener conto dell’esito dell’attività istruttoria espletata nel corso del processo penale.
E’ superfluo aggiungere che solo un’esame approfondito dell’intera vicenda (oltre che della motivazione della sentenza assolutoria) consentirebbe una risposta esaustiva e, soprattutto, coerente con la verità processuale del caso concreto.
Formule assolutorie
Non sempre dalle frequentazioni delle aule d’udienza si ricevono rassicuranti conferme circa l’utilizzo corretto della formula assolutoria in un processo penale. Le riassumiamo di seguito, con l’ausilio del Supremo Insegnamento della Corte di Cassazione.
La formula assolutoria “per non aver commesso il fatto” deve essere usata quando manchi, sul piano puramente materiale, ogni rapporto tra l’attività dell’imputato e l’evento dannoso, mentre quella più ampiamente liberatoria, “perché il fatto non sussiste“, presuppone che nessuno degli elementi, integrativi della fattispecie contestata, risulti provato; quando, invece, sia stata accertata, sotto l’aspetto fenomenico, la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato (quando cioè dalle risultanze processuali emerga che un fatto – corrispondente alla figura tipica di reato – sussiste) sicché la sentenza, non potendo escludere la riconducibilita dell’evento a tale fatto, si limiti ad affermare che nella condotta dell’imputato non si ravvisa l’elemento soggettivo della colpa (o del dolo), la formula è “perché il fatto non costituisce reato“.